Quel mio incontro con Giuseppe Salvia, tragitto di storia – Corriere dell’Irpinia

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di Matteo Zarrella

Eravamo i vincitori del concorso bandito nel giugno del 1972 a novanta posti di vicedirettore dell’Amministrazione degli Istituti di Prevenzione e di Pena. Nel dicembre del 1973 si svolsero le prove orali. E l’anno dopo eravamo già a fare tirocinio. Come prova di selezione, agli esami scritti, il tema: la colpa del custode nel reato di evasione. Una premonizione di una prospettiva custodialistica del carcere.

Come si presentava il carcere di allora? Un Fortino con grosse muraglie esterne, le sentinelle alla garitta, le sbarre di ferro, il susseguirsi dei cancelli. Un aspetto mostruosamente androide. Aveva braccia, i bracci, bocche, le bocche di lupo. Le porte delle celle erano senza maniglie e si chiudevano solo sbattendole con un rumore di ferro e di cemento. Altra voce di carcere: lo sferragliare dei cancelli. I carcerati vivevano in promiscuità, in cameroni o in celle adatte per tre o quattro detenuti, dove potevano stare in sette. Nei cameroni, le fetide latrine, nelle celle, il bugliolo. Su ogni cosa regnava il regolamento che vietava e puniva qualsiasi cosa: un reclamo collettivo, un atteggiamento irrispettoso. Tra le punizioni: la cella d’isolamento. Il carcere conteneva altro carcere. Tra carcerato e amministrazione penitenziaria era segnata una distanza. Il carcerato per ogni bisogno, ogni richiesta – avere un poco d’aria in più (stare più tempo al passeggio nel raggio del cortile), poter scrivere una lettera in più – doveva compilare la domandina per l’ufficio matricola, su modulo prestampato, senza che l’amministrazione fosse obbligata a rispondere. In dotazione degli istituti rimanevano letti di contenzione e camicie di forza. Dal carcere al manicomio giudiziario il passo era breve. E nel manicomio il carcerato poteva essere dimenticato. Un arcigno articolo 148 comandava la sospensione dell’esecuzione della pena nel tempo di assoggettamento del detenuto all’osservazione psichiatrica. I carcerati trattati come minorati da educare ai principi della religione, del lavoro e dell’istruzione, praticata con libri adatti per scolari di scuola elementare. Con effetti di regressione ad un infantilismo di ritorno.

La Costituzione era tenuta fuori dai cancelli delle carceri.

Dalla fine degli anni ‘60 spiravano venti di contestazione. La contestazione studentesca si andava estendendo alle fabbriche e tendeva ad una contestazione generale al sistema e alle sue istituzioni.

L’aria della contestazione filtrata attraverso le sbarre entrava nelle carceri.

Un vecchio appuntato degli agenti ci diceva: Come sono cambiate le carceri? Vi è maggiore presenza di giovani. I giovani adulti! L’ispettore Marolda osservava: “nella misura in cui fuori si avanza, dietro le sbarre si avverte il disagio e la sofferenza della stasi; disagio che, a lungo andare e in mancanza di opportuni tempestivi e adeguati interventi, può esplodere in manifestazioni di risentimento e di violenza”. 

Si vedevano cose mai viste prima. Detenuti salire sui tetti, barricarsi nelle celle, incendiare pagliericci, ammucchiarsi in azioni di vera e propria guerriglia. Non si limitavano più a reclamare un miglioramento del vitto, un prolungamento delle ore d’aria, del tempo di passeggio nei raggi del cortile. Chiedevano riforme, dei codici, delle carceri.

Nei primi anni ‘70 rimbalzavano alla cronaca dei giornali notizie sulle rivolte carcerarie. Si attuava lo sciopero della fame per reclamare “l’abolizione del codice fascista”. E dai tetti si sventolavano lenzuola con la scritta-manifesto: “Vogliamo un codice proletario”. Carcerati buttavano tegole sui plotoni di polizia accorsi a sedare la rivolta. Si ripetevano con voce di carcere le parole delle rivolte operaie: “Lotta dura, senza paura”. Il movimento di “Lotta Continua” pubblicava il suo manifesto: “Liberare tutti i dannati della terra”. Intervenne il Soccorso Rosso di Dario Fo e Franca Rame a dar sostegno militante ai rivoluzionari delle carceri. Sorse il movimento dei Nuclei Armati Proletari che miravano ad un attacco all’istituzione carceraria, come a voler ripetere l’attacco rivoluzionario della presa della Bastiglia. Seguirono le Brigate Rosse che miravano all’attacco diretto allo Stato. Vennero allo scoperto, il 18 aprile del 1974, con il sequestro del giudice Sossi. La misura apparve colma e si invocò l’intervento del generale Dalla Chiesa.

Carcere di Alessandria. La mattina del 9 maggio 1974 tre detenuti attuano la loro rivolta. Prendono in ostaggio sei insegnanti, un medico, sei agenti e sei detenuti. Spiegano: «L’azione è stata provocata dal comportamento irresponsabile del governo che si ostina da anni a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale», «Stanchi di essere presi in giro, decidiamo di prenderci ciò che ci spetta». Si cerca di trattare. L’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola si offre in ostaggio per convincere i rivoltosi a desistere, in accordo col Procuratore di Alessandria. Tutto sembra procedere verso una conclusione concordata quando entrano in azione il Procuratore di Torino Reviglio della Venaria e il Generale dell’Arma dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, che decidono per la soluzione di forza, incuranti del parere contrario delle autorità locali e di chi, come l’assistente Giarola, crede di poter rabbonire i rivoltosi. Due giorni di guerriglia nel carcere di Alessandria. Nel fumo dei lacrimogeni, si spara da ogni parte. Alla fine, cadono sul campo cinque ostaggi e due dei detenuti rivoltosi. Quindici i feriti. A detta di tutti, e per testimonianza, stracciata dalle mani di un Procuratore, di Don Maurilio Guasco, una strage che si poteva evitare. Due giorni dopo la strage le pareti dell’infermeria saranno imbiancate per far sparire le tracce della sparatoria.

 

Al cospetto di questo quadro ci trovavamo noi, i vincitori di concorso, prossimi ad assumere servizio.

Ognuno di noi teneva in serbo il proprio numero di graduatoria nel concorso. Io, primo nella graduatoria, sicuro di avere titolo a un posto di primo piano, come all’ufficio studi del ministero dove si stava elaborando la riforma delle carceri. Ci adunavamo nella Reggia di Caserta, nella gloria dei fasti borbonici, a domandarci su come poter cambiare le cose. Fu allora che conobbi Salvia Giuseppe, che nella graduatoria occupava il sessantaduesimo posto. E tu dove pensi di andare? Non vorrei allontanarmi da Napoli, dalla mia famiglia. Rispondeva sincero. Aveva occhialoni che mascheravano una timidezza congenita. Il sessantaduesimo posto in graduatoria verrà accontentato. Assegnato alla Casa Circondariale di Poggioreale, con delega alla sorveglianza nel padiglione di massima sicurezza dove si trovava alloggiato, con una corte di inservienti detenuti, Raffaele Cutolo.

Io fui assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia, nel delicato momento della elaborazione di una riforma del sistema carcerario. L’approssimarsi della riforma non placava lo spirito rivoluzionario dei Nuclei Armati Proletari e delle Brigate Rosse. Poco prima dell’entrata in vigore della riforma i NAP avevano mandato segnali di avversione. Il 28 gennaio 1975 un nucleo armato dei NAP sparava contro Pietro Margariti, capo dell’Ufficio Terzo, dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo colpiva alle gambe. Il 6 maggio del 1975 i NAP sequestravano Giuseppe Di Gennaro riconosciuto come l’ideatore, all’Ufficio Studi dell’Amministrazione, della riforma.

La riforma sopraggiunse con legge 26 luglio 1975, n. 354 e prese titolo di Ordinamento Penitenziario, a conferma del riconoscimento ai detenuti di veri e propri diritti, primo tra i quali il diritto al trattamento conforme a umanità, nel rispetto della dignità della persona, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose. Un trattamento rigorosamente informato al principio per cui essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

I fatti di Alessandria avevano lasciato il segno. Si sovrapponeva alla riforma delle carceri la controriforma delle carceri speciali, voluta dal Generale Dalla Chiesa, eletto, a seguito di decreto ministeriale n. 450 del 12 maggio 1977, Coordinatore dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari. Individuate da Dalla Chiesa nel luglio 1977 le prime carceri speciali: Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone. Per detenuti speciali, individuati, su determinazione discrezionale del Generale, tra detenuti segnalati come particolarmente pericolosi.

Presi di mira Direttori degli Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria impegnati nell’attuazione della riforma. Riccardo Palma, Direttore dell’Ufficio VIII dell’Amministrazione penitenziaria, si accingeva nella mattina del 14 febbraio 1978 a raggiungere il Ministero con la sua 128 quando Prospero Gallinari, componente delle Brigate Rosse, gli scaricò contro 14 colpi di mitraglietta. Avevo conosciuto il Direttore Palma, nella sua visita alla costruenda Casa Circondariale di Bellizzi Irpino: un magistrato incaricato della ripresa dell’edilizia carceraria, dei costi e dei collaudi dei lavori. Una brava persona.

Sopraggiunse, a scuotere l’Italia, il 16 marzo 1978: rapito e sequestrato Aldo Moro, Statista lungimirante. Uccisi gli uomini di scorta. Il governo si arroccava sulla linea della fermezza e rifiutava ostinatamente le accorate sollecitazioni di Moro che verrà ucciso e trovato cadavere nel bagagliaio di una Renault rossa il 9 maggio 1978.

È il 10 ottobre del 1978 quando Girolamo Tartaglione, Direttore Generale degli Affari Penali, di rientro a casa dal Ministero, stava per entrare in ascensore.  Ad aspettarlo due giovani che a distanza ravvicinata gli spararono alla testa. A rivendicare “l’impresa”, con un volantino, un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse.

Girolamo Minervini, magistrato di grande umanità, appena nominato Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e di pena, nel presentimento di un attentato terrorista, evitava la scorta per mimetizzarsi tra la folla anonima. Il 18 marzo 1980, un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse lo colse in un autobus e gli sparò contro. L’autobus si svuotò per lasciare tutto il suo spazio, poco prima affollato, al cadavere di Minervini.

Giovanni D’Urso, Direttore dell’Ufficio Detenuti del Ministero della giustizia venne il 12 dicembre del 1980 rapito e sequestrato dalle Brigate Rosse che reclamavano la chiusura del carcere dell’Asinara. Liberato il15 gennaio 1981 dopo la chiusura e lo sgombero dell’Asinara ed un comunicato, letto nello spazio TV di tribuna politica del partito radicale, dalla figlia Lorena, costretta a definire il padre “boia” delle carceri.

Erano le 19 del 31 dicembre del 1980 quando il generale Valgimigli, stretto collaboratore di Dalla Chiesa nell’attività di coordinamento dei sistemi di sicurezza delle carceri, rientrava con la moglie a casa dopo essere stato alla “messa” nella Chiesa della sua parrocchia. Lo aspettavano davanti casa due sedicenti postini che lo uccisero scaricandogli contro cinque colpi di pistola.

Nell’istituto di Poggioreale vige una specie di pax mafiosa-camorrista. Poggioreale non era solo un carcere. Era un Fortino di camorra dove si succedevano i capi camorra. Prima di Cutolo, Antonio Spavone, o malommo, esaltato dall’avvocato Porzio. Sfogliamo il libro di Antonio Mattone e apprendiamo.

È il 6 novembre 1980. Al transito il vicedirettore Salvia chiede al boss di togliersi le scarpe. Immaginarsi la reazione stizzita del boss che reagisce con il solito sorriso di beffa. Perché dovermi togliermi le scarpe all’uscita e all’ingresso? È il regolamento, la risposta decisa di Salvia. Cutolo, reagisce: Cornuto t’aggia accirere. E sferra al vicedirettore uno schiaffo sulla guancia sinistra mandando in frantumi i vetri degli occhiali. Salvia raccoglie gli occhiali. Le guardie rimangono inerti. Salvia vive momenti di estrema solitudine. Si ritira in ufficio a fare rapporto sull’accaduto, come a formalizzare un atto d’ufficio. Cutolo ha sferrato uno schiaffo ed una minaccia. Si ordisce il piano per dare esecuzione a quella sentenza: t’aggia accirere. Quell’omicidio doveva essere fatto a tutti i costi. Rosetta Cutolo è implacabile: “Ha detto mio fratello che se non si fa questo omicidio si fermano tutte le attività a Napoli e in provincia”. E Gigginiello dal carcere conferma: “Don Rafele ha ditto che s’ha’ dda fa!”. Il fedelissimo di Ponticelli, Mario Incarnato, propone: “Appaltare l’azione a dei balordi, da far fuori successivamente per eliminare testimoni scomodi”. Rosetta non vuole sentire ragioni: “Devono essere i fedelissimi del fratello a portare a termine l’agguato”. Incarnato ispeziona i luoghi. “Mi recai due, tre volte nel suo garage dove aveva la macchina; io avrei voluto rapirlo e farlo sparire per sempre, un agguato sarebbe stato troppo rischioso, il personaggio era molto importante e un omicidio per strada avrebbe suscitato grande clamore”. Cutolo, spiega Mattone, voleva un delitto “visibile, per provocare terrore e per accrescere il suo prestigio. Chi prestava servizio a Poggioreale doveva capire che non gli sarebbe stato consentito ostacolare il suo potere all’interno di quelle mura”. E così viene il giorno stabilito dell’esecuzione.  È il 14 aprile 1981, giorno di Martedì Santo. La Ritmo bianca di Salvia percorre la tangenziale. A seguirla una Giulietta blu che riesce ad affiancarla. Il passeggero della Giulietta si sporge dal finestrino e spara contro Salvia che rimane illeso. La Giulietta supera la Ritmo e le sbarra la strada. Salvia prova ad innestare la retromarcia ma è impedito dalle automobili che vengono da dietro. Cerca di scappare a piedi. Colpito alle spalle. Poi 4 colpi di pistola lo colpiscono alla tempia destra, alla mandibola, sotto l’occhio e al torace. Definitivo, mortale, fu il colpo alla nuca. Una donna assiste alla scena e nota “il terrore impresso sul volto della vittima, sconvolto da un attacco così improvviso e spietato”. Rimane ferma sulla tangenziale, ai margini della corsia, la Ritmo bianca. Con la portiera aperta. Giuseppe Salvia giace cadavere con il volto schiacciato sull’asfalto.

Intanto Cutolo accresce il suo “prestigio”. È il 27 aprile 1981 quando viene rapito il 27 aprile 1981, dalla colonna napoletana delle Brigate Rosse, Ciro Cirillo, Assessore Regionale all’Urbanistica, Presidente del Comitato per la ricostruzione del dopo-terremoto. A Raffaele Cutolo si rivolgono uomini di Stato, vertici del potere della democrazia cristiana, per ottenere la liberazione di Cirillo. Per avvicinare Cutolo si sono aperte, per assenso esplicito ed implicito di Ugo Sisti, nuovo Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e di Pena, le porte del carcere di Ascoli dove il capo-camorra si trova “alloggiato”, per farvi entrare faccendieri, uomini politici e uomini dei Servizi Segreti. Lo Stato entra in trattative con Cutolo e tramite Cutolo con le Brigate Rosse, contraddicendo la linea della fermezza proclamata solo tre anni prima con la chiusura di ogni possibilità di negoziato per la liberazione di Aldo Moro. Le trattative per Ciro Cirillo, portate a conclusione, prevedono contropartite innominabili per Cutolo ed una rilevante somma di denaro per le Brigate Rosse.

L’assassinio di Salvia s’allontana nel tempo, quasi fatto passare come uno dei tanti delitti commessi per punire uno sgarro alla camorra. Ma la verità è sempre in cammino e restituisce oggi la giusta considerazione al sacrificio di Giuseppe Salvia, ucciso per aver fatto il suo dovere. La banalità del bene, del dovere da compiere, di fronte a tanta indifferenza, negligenza, tolleranza, diventa eroica.

Giuseppe Salvia come Giorgio Ambrosoli, “l’eroe borghese” che non voleva essere eroe né morire da eroe. Solo fare bene il suo mestiere di liquidatore contabile della banca di Sindona. Sindona, vendicativo, decise di farlo uccidere. Giorgio Ambrosoli finì assassinato ad opera di un oscuro sicario. Alla telefonata del 12 gennaio 1979, a mezzogiorno, il sicario lo avverte: “Non la salvo più perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e bastardo”. “Cornuto”: lo stesso insulto rivolto da Cutolo a Salvia. Sull’assassinio di Ambrosoli, il gelido commento di Andreotti: “se le è andata a cercare”. Avrebbe potuto dire la stessa cosa sull’assassinio di Giuseppe Salvia: “S’era messo contro Cutolo. E quella fine se le era andata a cercare”.

 



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