“Sono partito dalla necessità di restare umani in un mondo che sembra averlo dimenticato, dal desiderio di raccontare gli sconfitti che hanno una lotta da raccontare”. A sottolinearlo è Giancarlo Piacci, scrittore e liberario partenopeo, nel presentare il suo romanzo “Nostra signora dei fulmini” alla Biblioteca Provinciale. A confrontarsi. con l’autore Edmondo Lisena e Maria Chiara Pizza, bravi nel suggerire spunti di riflessione molteplici. “Il protagonista della storia, Vincenzo, – spiega – è un naufrago della vita, un pescatore, ex tossicodipendente, che ritorna da Milano, dove pensava di poter trovare la strada del riscatto, a Napoli. E’ un uomo che si senta a disagio nel mondo e deve fare i conti con i fantasmi del passato. Del resto, è lo stesso mondo a venire meno. E’ una questione che mi sono posta nello scrivere il libro, che senso poteva avere parlare di vite quotidiane in un contesto così complesso”.
“Malgrado guardi come modello al noir mediterraneo – prosegue Piacci – non mi piaceva l’idea di un romanzo giallo che avesse come protagonista un poliziotto. Volevo che il romanzo fosse popolato da quell’umanità che affolla il centro storico, raccontasse la solitudine di chi si sente con le spalle al muro. I miei personaggi si chiedono quante volte bisogna provare questo sentimento di solitudine per essere davvero soli, quante volte bisogna essere cattivi per essere considerati tali. Una matematica dei sentimenti messa in discussione dalle crepe che esistono in ogni storia. Sono le crepe da cui filtra la luce, a cui ci si aggrappa anche nella marginalità. Non esistono personaggi buoni che lottano contro il male. Ognuno ha i suoi segreti”.
Si sofferma sul tema dell’amore e del desiderio come motore “Per Vincenzo che vive in un presente cronico arriva l’amore. Lo spaventa malgrado abbia vissuto fughe, latitanze e morte. Sente che Irene è la sua opportunità. Ma vuole davvero un amore così luminoso come quello che rappresenta Irene? A lei sembra contrapporsi Diana, la sua barca, che si fa simbolo della caccia in mare aperto, della possibilità di avventure sconfinate”. E’ presto chiaro al lettore che “Vincenzo – prosegue Piacci – è un personaggio scisso, una parte di lui è animata dal desiderio di vivere una vita serena, un’altra è dominata da una parte oscura. Ogni volta che sceglie, ha sempre la sensazione di aver fatto prevalere la parte sbagliata. Una duplicità rappresentata anche da due figure paterne come quella di Giovanni che riconosce sè stesso in Vincenzo e lo aiuta, trasmettendogli l’unica educazione che conosce, quella criminale o Antonio, uomo di mare che segue una sua etica, convinto che non si lascia mai nessuno solo”. Spiega di aver dovuto faticare per scrivere di una donna “Avevo sempre l’impressione che le parole di Irene, i suoi movimenti fossero guidate dal filtro maschile di Vincenzo, da come pensiamo che siano le donne. Quando ho lasciato quel filtro Irene ha preso il sopravvento con il suo desiderio di una vita semplice ma totale, capace di mettere in chiaro fin dall’inizio che l’amore non è a tempo indeterminato”.
Una riflessione, quella che consegna Piacci, che abbraccia anche il tema della comunità, come quella rappresentata dai pescatori di Bacoli costretti a fare i conti con le offerte delle multinazionali, il pericolo di allevamenti intensivi con un forte impatto ambientale. Sarà a quel punto che la comunità si dividerà, fino a cedere al terrore di sè stessa, con i pescatori che non riescono più a fidarsi l’uno dell’altro. Capiranno presto che esiste sempre un’opportunità ma se si è da soli diventa impossibile afferrarla”. Costante il richiamo a Napoli che “per me è tutto, ho lottato per restare qui ma continuo ad assistere ad una emorragia di giovani. E’ una città frontaliera in cui coesistono sacro e profano, miti ancestrali, religiosità e scaramanzia. Una città che oggi viene svenduta, ridotta a un brand, a un contenitore vuoto che non ha più nulla della sua essenza. Ci hanno detto come essere bravi napoletani con i panni stesi per finta nei vicoli e strade che non appartengono più a noi ma ai turisti. Perchè tutto dipende da come si guarda la città, la si può guardare col desiderio di capirla o nella speranza che rappresenti l’immagine che abbiamo di quella città”. Spiega come la testa che campeggia sulla statua del Nilo, quella che viene indicata come corpo di Napoli, fu attaccata grazie ai cocci dei maestri delle botteghe napoletane, allo stesso modo Napoli sta in piedi grazie alle tante vite spezzate”. Chiarisce come centrale sia il concetto di corpo “C’è una grande fatica dei corpi nelle pagine di questo libro, allo stesso modo mi interessava comprendere cosa succede a un corpo quando dipende da droghe e trasferirlo al lettore. Ho cercato di rendere nella scrittura le accelerazioni che caratterizzano lo sguardo del protagonista, dipendente da cocaina”.
Parla della diversità che entra attraverso la figura di un ragazzo che non parla, ma è sempre accompagnato da un branco di cani, gli unici con i quali riesce a relazionarsi “Volevo stigmatizzare la diversità e sottolineare la bellezza di questi corpi difettati, che meritano di essere raccontati. Del resto, anche nel caso di Vincenzo si fa fatica a collocarlo in un contesto identitario definito”. Spiega di guardare con “pietà e senso di responsabilità profondo ai giovani violenti di Napoli, armati sin da ragazzini. Guardano al loro corpo come l’unica cosa che appartiene loro. Del resto, che senso ha una società che impone simili scelte?. Come diceva Victor Hugo non esiste l’erba cattiva ma cattivi coltivatori”. Infine, ribadisce di non amare la serialità “C’ è un limite alle cicatrici che un personaggio può portare addosso. Per questo non mi ha mai convinto”.