Di Gianni Festa
Lo ha detto l’altro giorno Sergio Mattarella in Polonia, visitando il campo di sterminio di Auschwitz: “I fascisti furono complici dei carnefici nazisti, odio e razzismo sono in agguato”. Il monito del Capo dello Stato, la severità con cui quelle parole sono state pronunciate e diffuse tra gli italiani, rappresentano, insieme ad una ferma e decisa condanna, anche una chiamata all’impegno e alla responsabilità per quanti ancora oggi, con memoria labile, tentano di giustificare il passato come un semplice errore di un tempo diverso. Invece le parole di Mattarella cadono in un momento particolare per la democrazia italiana che attraversa una delle fasi più delicate dal dopoguerra ad oggi. Sul piano politico, sociale e revisionista. Allora fu il fascismo a negare ogni forma di libertà collettiva e individuale. Ci volle grande coraggio degli antifascisti, di un popolo in rivolta, a decretare con le armi la fine della dittatura. In quel 25 aprile del 1945, altrimenti detto anche della Liberazione, gli italiani sconfissero finalmente i nazisti ponendo fine alle loro stragi. Allora si chiusero i conti con il fascismo di Benito Mussolini. Da quella lotta di Resistenza, nacque la Repubblica e con essa vi fu il varo della Costituzione. Si gettarono, nei mesi che seguirono, le basi della democrazia. Ma il passato che non passa è ancora presente in tanti nostalgici che, invocando i tempi che furono, mettono a serio rischio le Istituzioni. Talvolta usando i poteri che la democrazia ha loro concesso. In realtà, hanno indignato alcune prese di posizione del ministro della pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, a proposito della libertà di insegnamento; alcune dichiarazioni del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che hanno provocato reazioni per la sua collezione del regime, ostentata come un trofeo; nè ancora le prese di posizione del ministro Francesco Lollobrigida sulla “sostituzione etnica”. Sono segnali preoccupanti che riportano indietro le lancette della storia. A queste ostentazioni politiche si aggiunge poi un clima per niente tranquillizzante, creato da gruppi neofascisti. Gli assalti alle sedi dei sindacati, la violenza degli ultrà di destra anche negli stadi, la profanazione dei simboli della Resistenza e tante manifestazioni di intolleranza anche verso la premier Meloni non possono non destare preoccupazione sul futuro. E qui si apre, dentro e oltre il rigurgito fascista, il capitolo dell’Autonomia regionale differenziata. Vi chiederete: che cosa ha a che fare con la Resistenza? Tutto. Potrebbe essere la grande macchia contro l’unità d’Italia. L’arroganza dei più forti contro i deboli, lo schiaffo a quei tanti meridionali che con grande sacrificio diedero il loro sangue per l’Italia unita in guerra. Che cos’ è il provvedimento del ministro Calderoli se non uno strumento di divisione tra le due Italie, nord e sud? Il provvedimento va avanti con celerità, con l’opposizione dei rappresentanti del popolo meridionale e il tacito consenso di quanti vogliono spaccare il Paese. C’è stato un tempo in cui il mito della Resistenza era considerato valore fondante della nostra democrazia. Ora questo termine sta diventando lentamente desueto. Il ricordo riappare solo in occasione degli anniversari e per merito di quanti, ancora oggi non più giovani, rievocano l’orgoglio partigiano e di quanti combatterono per la conquista della libertà. Se tutto questo appartiene alla memoria di chi ancora la possiede, il grave errore che ancora oggi si consuma è quello di non saper trasmettere alle nuove generazioni il significato e il valore di quella Resistenza. Tutto, invece, ci dice che come ieri e più di ieri occorre tenere la guardia alta, ricordando che Resistenza fu e Resistenza deve essere, per difendere la Costituzione e con essa libertà e democrazia.
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