“E’ stato un percorso verso un nuova consapevolezza, fino ad abbracciare ciò che resta di mio padre, a partire dal suo sguardo attento ai territori, dalla sua passione civile. Mi piacerebbe che questo progetto si trasformasse in un festival di fotografia con la partecipazione di artisti provenienti da tutta Italia”. Lo sottolinea con forza Fulvio De Socio nell’illustrare la mostra fotografica nata dal concorso “Periferie” dedicato al padre Ettore, dirigente Inail e protagonista della scena politica, sociale e culturale irpina, inaugurata questo pomeriggio al Museo Irpino. “Per mesi – prosegue Fulvio – ho creduto che il lutto legato alla perdita di mio padre fosse solo mio, ho vissuto un corto circuito emotivo. Poi l’idea della mostra è stata l’occasione per trasformare questo lutto in una progettualità che mi aiutasse a colmare la solitudine, a partire dal desiderio di raccontare i territori marginali che ha sempre contraddistinto l’impegno di mio padre”. Si sofferma sul senso delle immagini che consegna la mostra “Sono reportage fotografici che raccontano una periferia dal volto duplice, ora occasione di riscatto, grazie alla mobilitazione dei cittadini, che cercano di compensare alle mancanze delle istituzioni, ora spazi che continuano ad essere fortemente marginali. Penso a fotografi come Fabio Moscatelli che si è trasferito a Torbellamonaca e racconta in “Qui vive Jeeg”, mostra che si affianca alle immagini del conrso, la quotidianità di chi abita quell’area, un quotidianità fatta di padri e madri che lavorano, gente comune e onesta, al di là dei pregiudizi legati alla periferia”.
E’ Generoso Picone di Controvento, ultima casa politica di Ettore De Socio, a spiegare come questo concorso sia stata una scommessa vinta, “capace di mettere insieme l’analisi del territorio che caratterizza la dimensione giornalistica e l’anima politica che hanno sempre guidato Ettore. Vuole essere un modo per ricordarlo, per fare sì che cammini ancora con noi e, al tempo stesso, promuovere una riflessione a partire da un luogo strategico come questo, che può diventare il vero centro della città. A parlare i numeri, 71 partecipanti, provenienti da tutta Italia, 1500 immagini, tanti luoghi “visti” con uno sguardo autoriale, dal Giambellino al Pilastro, dall’Africa all’America, il Nord – est apocalittico, il Nord Ovest caldo e pieno di languore, e Corviale, e Scampia, e Ostia negli anni ’90, la cintura urbana di Milano”. Sottolinea come queste foto “documentano non solo i mutamenti del paesaggio della periferia ma si soffermano sullo spazio in cui si incrociano campagna e città, si interrogano su come la cattiva architettura condizioni e trasformi i comportamenti umani. Rappresentano il punto di partenza di un ragionamento politico e antropologico da portare avanti”. Spiega come “per lui la periferia era non solo spazio urbanistico ma intimo che ha sempre effetti sull’animo umano. Penso anche alle trasformazioni che investono il nostro territorio, dalla Valle Ufita all’Alta Irpinia”. E’ quindi il presidente della Provincia Rizieri Buonopane a sottolineare l’orgoglio di accogliere questa mostra con l’obiettivo di trasformarla in un progetto più ampio, ricordando come la sua strada abbia incrociato quella di Ettore, quando era dirigente Inali “Confesso che avevo un po’ timore di lui”. Giovanna Silvestri, anima del Museo irpino, sottolinea come il concorso fotografico abbia incrociato le iniziative del Carcere Borbonico, legate ad ‘Un anno di mostre’ a partire dal viaggio che consegna Marco Giannattasio, dedicato ai “Tokai. I bambini di strada di Dhaka” nel Bangladesh. Tocca, poi, a Giannattasio soffermarsi sull’idea da cui nasce la mostra “I Tokai sono i bambini di strada del Bangladesh, bambini abbandonati in un territorio come quello di Dhaka che rappresenta la periferia di un sistema economico e sociale. Vivono nelle baraccopoli, oppure utilizzano per dormire le banchine dei treni. La loro occupazione principale è il riciclo dei rifiuti che fornisce loro un minimo di guadagno e salva la città, sommersa dai rifiuti. Si stima che nella sola Dhaka ci siano oltre 60.000 bambini abbandonati. Tra di loro è diffusissimo il consumo di colla e proprio l’uso di queste sostanze, insieme all’impossibilità di accedere alle cure mediche determina un alto tasso di mortalità”. Di forte suggestione anche le testimonianze che scorrono nel video proiettato a ripetizione nella sala di amici, familiari e compagni di strada di Ettore, da Carmine Carmelengo a Gianni Festa e Norberto Vitale, da Mariagrazia Papa a Carla Perugini.
A partecipare all’incontro anche Sofia De Cristofaro che si è aggiudicata il primo posto nella sezione dedicata agli studenti con un bel reportage dedicato all’abbandono del castello di Forino “Le fotografie diventano strumento per sollecitare la necessità di un impegno per salvare quello che potrebbe rappresentare un fiore all’occhiello del territorio”. “Le immagini – si legge nella didascalia che accompagna le foto – propongono una ricerca della bellezza nelle cose che non servono più, nei posti morti, rimorti e scampati, nelle dimore provvisorie dove regna il silenzio, nei luoghi inattuali dove il tempo procede con lentezza”
Bellissimi i reportage dei vincitori, primo classificato Daniel Menegoni con “Bitter Sweet Country” che racconta la sfida di rinascita di Albano Laziale, nelle terre dell’Agro Pontino, il desiderio di riscatto pur sapendo che sarà difficile non continuare ad essere spazio al margine. Secondo classificato: Alessandro Tegon con “Luoghi a perdere” che consegna immagini del Nord Est, di Merano, a partire dal triangolo formato dalle città di Venezia, Padova e Treviso in cui la produttività diventa unico analgesico ad un vuoto esistenziale, alla frantumazione sociale. Immagini che ci restituiscono luoghi svuotati di grazia e senso “Ho cercato di dare forma ai luoghi deformati dalle direttrici dei grandi centri industriali che collegandosi alla provincia ne succhiano l’energia umana, all’imbruttimento diffuso, al non senso, al sacrificio del bello”. Terzo classificato: Serafino Fasulo con “Cinema Africa” in cui lo sguardo è rivolto all’Eritrea che per anni ha rappresentato la periferia più estrema dell’Africa, un paese in cui si assiste ad un ritorno alla propria cultura da parte della popolazione locale. Menzione speciale per Isabella Subacchi con “Centotrentatre – C’era una volta la Via Emilia” che racconta Piacenza e la via Emilia “una frazione della città che fu accorpata alla città stessa, abitata per lo più dagli operai delle fabbriche vicine e dall’arsenale dell’esercito”. Un esercizio di memoria a partire dalle lettere scritte dai compagni della vecchia scuola, quando a causa del lavoro di papà fu costretta a trasferirsi dalla campagna