Di Andrea Covotta
I trent’anni dalla fine della Democrazia Cristiana coincidono con la scomparsa di uno dei suoi uomini simbolo: Arnaldo Forlani, che ci ha lasciato venti giorni fa. Un percorso politico lunghissimo che termina di fatto con la mancata elezione al Quirinale e con le dimissioni da segretario della Dc. E’ l’epoca dominata dalle inchieste di tangentopoli che sconvolgono la politica. Forlani non aveva l’ossessione del potere come del resto anche l’ultimo segretario della DC, Mino Martinazzoli. E’ lui, il 26 luglio del 1993, a convocare l’Assemblea costituente del partito per chiudere l‘esperienza politica della Democrazia Cristiana e aprire quella del Partito popolare, usando lo stesso nome ideato nel 1919 da Don Luigi Sturzo. Una mossa che per Martinazzoli ha lo scopo di rigenerare un “corpo malato” dagli scandali e da un crollo dei consensi che appare inarrestabile. L’obiettivo è “svecchiare” il partito senza però rinnegare una storia e tornare al movimento delle origini. Il tentativo di Martinazzoli si infrange contro gli scogli di una società che vuole cambiare, che sull’onda delle inchieste giudiziarie accusa la politica e i politici di allora di essere l’incarnazione del potere corruttivo. Martinazzoli non si arrende alla semplificazione; solo negli anni successivi darà la sua spiegazione su quanto accaduto: “Per tutti ormai bisognava stare o di qua o di là, c’erano solo la destra e la sinistra e il centro non c’era più. Io obiettavo – lo ammetto con un di più di acribia, essendo un buon lettore di Guicciardini – che agli italiani non piace stare di qua o di là, ma piace stare sia di qua che di là a seconda di dove si vince. E dicevo che quello che mi interessava era il perché, per chi e il con chi si dovesse vincere. Ma era una voce flebile”. E così dopo mezzo secolo di egemonia politica, la fine della Democrazia Cristiana arriva in maniera rapida e sorprendente. Il suo erede, il Partito Popolare appare, agli occhi dell’opinione pubblica, come la stanca prosecuzione della DC, ormai disorientata dalla crisi delle ideologie e travolta dalla bufera giudiziaria. Le frasi che Martinazzoli pronuncia in quella fase sono taglienti e colte: “Il popolo non è audience”, “Ho una faccia, una sola e di questi tempi è abbastanza”, “Occhetto sarebbe anche simpatico ma quando va in TV assume un’aria melodrammatica da librettista verdiano”, “Berlusconi dovrebbe continuare ad occuparsi delle sue aziende e lasciare ad altri l’attitudine per la politica che non procede mai per linee rette”. Rileggendole oggi si nota come sono l’emblema della politica che Martinazzoli caparbiamente insegue, purtroppo ormai del tutto irrealizzabile. La videocrazia e i social hanno vinto e la politica attuale è ormai decaduta; la semplificazione mediatica ha preso il sopravvento rispetto a un dibattito articolato, la velocità è diventata sinonimo di modernità e la lentezza di vecchiaia. La pazienza è, invece, una virtù che va perseguita e ricercata per ricomporre un tessuto di interessi comuni e, senza questa necessaria mediazione sono emerse tendenze plebiscitarie.
Post Views: 8