Una lieve anestesia, nessuna intubazione e un decorso post operatorio molto più leggero, senza neppure dover fare i conti con vistose cicatrici. A prometterlo sono le nuove tecniche per affrontare un tumore alla tiroide, una patologia che colpisce soprattutto le donne e che, secondo le previsioni, è destinata a veder aumentare i casi. In base a calcoli statistici effettuati negli Usa, infatti, nel 2030 il cancro della tiroide sarà per frequenza il secondo cancro nelle donne, inferiore solo al cancro della mammella.
Tumore alla tiroide, perché i casi in aumento
«Al momento il tumore maligno della tiroide è il quarto tumore per incidenza, ma diventerà il secondo più frequente nel sesso femminile dopo il tumore della mammella e il terzo più frequente nel maschio, dopo quello della prostata e del polmone», dice Roberto Valcavi, specialista in Endocrinologia e Medicina Interna e presidente dell’Associazione T.N.T. (International Association of Thyroid Nodules Therapies). «Cionostante la mortalità dovrebbe rimanere attorno al 2-2,5% a 10 anni dalla diagnosi, cioè bassissima e circoscritta a più rare categorie di tumori maligni rispetto al più frequente tumore papillare (cioè la forma tumore midollare, follicolare e anaplastica)».
A influire è sicuramente un miglioramento nelle diagnosi. «Le metodiche diagnostiche sono più accurate e diffuse. In particolare grazie alle più frequenti ecografie, effettuate per motivi disparati, oggi capita di individuare noduli o tumori con più frequenza. Per esempio, alcune donne scoprono di averne durante una visita ginecologica, quando il medico controlla anche mammella e tiroide. Oppure può capitare con pazienti in follow up che eseguono tac e risonanze magnetiche», spiega ancora l’endocrinologo.
Ci sono anche studi che mostrano una certa responsabilità dell’incremento dei casi per motivi ambientali. «Si è ipotizzato un ruolo da parte di ftalati e bisfenoli, agenti chimici inquinanti utilizzati per oggetti di plastica come utensili da cucina, giocattoli, bottiglie o scontrini della spesa e che sono ritenuti interferenti endocrini. Ma non ci sono ancora sufficienti evidenze scientifiche per metterli in relazione diretta all’incremento di tumori alla tiroide», chiarisce l’esperto.
Perché e quando scegliere le tecniche meno invasive
La buona notizia è che, di fronte a una maggiore incidenza, oggi sono disponibili anche tecniche di intervento più moderne e meno invasive. «Fino a qualche anno fa si procedeva soprattutto con la chirurgia tradizionale, poi si è preferita la terapia farmacologica con l’ormone prodotto dalla tiroide, la tiroxina, con la presunzione che ciò avrebbe arrestato la crescita in caso di noduli benigni. Ma nel tempo è caduta in disuso dopo che è stata dimostrata la sua inefficacia», afferma Valcavi. «Di recente sono state sviluppate forme di terapia selettiva, che mirano a eliminare il nodulo là dove si trova, senza asportare nulla, quindi ricorrendo a un’ablazione. Si tratta di tecniche ecoguidate e minimamente invasive, per le quali non sono necessarie incisioni chirurgiche».
Tumore alla tiroide, come funziona l’ablazione
Le nuove tecniche di ablazione rappresentano una svolta importante per molti pazienti, che possono contare su «un disagio minimo. L’anestesia è leggera e non prevede l’intubazione e la ventilazione assistita come invece di norma avviene per l’asportazione chirurgica della tiroide», spiega Valcavi, che ha introdotto l’ecografia tiroidea dal 1986 e nel 1999 ha fondato l’AME, Associazione Italiana Endocrinologi.
Oggi Valcavi è direttore dell’E.T.C. (Endocrine Thyroid Clinic) di Reggio Emilia e spiega: «È sufficiente un intervento di lobectomia (asportazione di un solo lobo) nel caso di tumori di diametro inferiore a 1 centimetro, se non sono stati intaccati i tessuti circostanti e non ci sono metastasi nei linfonodi del collo. Al contrario, il metodo di asportazione chirurgica è un approccio demolitivo. Sostanzialmente si tratta di asportare tutta la ghiandola o parte di essa».
#Salvalatuatiroide: più possibilità per i pazienti
I vantaggi delle nuove tecniche sono molteplici, come spiega l’esperto endocrinologo: «Quello principale è che la terapia ablativa non danneggia il tessuto tiroideo sano (detto parenchima), quello indenne dal nodulo o dal tumore, mentre elimina selettivamente il nodulo tiroideo. Garantisce anche un decorso post operatorio molto più rapido e semplice rispetto a un intervento chirurgico, e con minori effetti collaterali».
Eppure non tutti i medici propongono questa tecnica ai pazienti. «Nonostante sia ormai disponibile sia in Europa che in Italia, stenta ad affermarsi per due motivi: qualche resistenza dei medici stessi all’innovazione, ma anche una oggettiva carenza di preparazione degli specialisti su questa materia. Per questo ai pazienti non viene generalmente offerta la possibilità di fare terapie di ablative per noduli benigni e maligni della tiroide, ma semplicemente li si indirizza all’intervento chirurgico classico».
Da qui l’importanza della campagna di sensibilizzazione #Salvalatuatiroide, che sarà ricordata anche in occasione del Secondo Meeting Internazionale sulle Terapie Ablative Tiroidee, il 23 e 24 giugno 2023 a Reggio Emilia.
Quale ablazione scegliere?
Se l’ablazione rappresenta una nuova opportunità per molti pazienti, occorre anche scegliere la tecnica con cui effettuarla. «Sistemi quali laser, microonde e radiofrequenza consentono di immettere onde elettromagnetiche di varia lunghezza d’onda e intensità all’interno del nodulo per mezzo di aghi piuttosto sottili, causando un aumento della temperatura. È sufficiente l’esposizione delle cellule nodulari e/o tumorali per un solo secondo alla temperatura di 60 °C per causarne la distruzione», spiega Valcavi.
L’obiettivo, quindi, è eliminare il nodulo o tumore, ma evitando la carbonizzazione dei tessuti, che invece può avvenire in parte con altre tecniche come microonde e laser. «Espone il tessuto alla temperatura di soli 70-90 gradi centigradi, sufficienti a distruggere le cellule tumorali sia benigne sia maligne, mentre con le microonde e il laser la temperatura arriva rispettivamente tra i 120/140 °C e fino ai 400-700 °C. La conseguenza è che la carbonizzazione non può essere in alcun modo riassorbita e resta un marchio perenne della ablazione».
Sorveglianza attiva o intervento?
«Va tenuto presente che oltre il 90% dei tumori sono carcinomi papillari, di regola non invasivi e non associati al rischio di metastasi. Ciò spiega perché per i microtumori papillari inferiori al centimetro di diametro è stata proposta la Active Surveillance, cioè la sorveglianza attiva, che consiste nel tenere sotto costante controllo ecografico le lesioni senza asportarla né fare alcuna terapia. Il problema è che l’80% dei pazienti la rifiuta, preferendo eliminare il tumore e anche più del 50% dei medici teme che, evitando i controlli o dimenticandoli, si possa andare incontro a peggioramenti indesiderati che possono compromettere un successivo intervento chirurgico», osserva l’esperto.
Non solo. A questo è spesso poi associata una terapia farmacologia che, «è vero che sostituisce la funzione della tiroide, ma in genere peggiora sensibilmente la qualità della vita proprio a causa dell’obbligo di assumere perennemente la cura ormonale sostitutiva».
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