«Avevo 31 anni, ero sposata da sei mesi e con mio marito volevamo avere un figlio ma la gravidanza non arrivava e avevamo iniziato a fare esami specifici sulla fertilità. Durante la visita la ginecologa rilevò una ciste all’ovaio destro che riteneva probabile causa di un dolore al fianco. Nessun allarme nelle sue parole. ‘Proviamo a fare una cura per vedere se questa ciste tra un ciclo e un altro va via’. Iniziai la cura ma il dolore aumenta al punto che mi dovetti rivolgere al pronto soccorso».
Da qui inizia il calvario di Annamaria che dopo diversi passaggi da uno specialista a un altro, scopre di avere un carcinoma ovarico. «I medici lo sanno e io l’ho imparato a mie spese: non ci sono campanelli d’allarme per il tumore ovarico. Non ha sintomi specifici, è vero, ma può essere quanto meno fortemente sospettato con una semplice ecografia eseguita dal ginecologo. Nel mio caso – ma so di non essere sola – non è bastato».
Annamaria è una delle nove protagoniste di “Cambiamo rotta”, le cui testimonianze del lungo viaggio dalla diagnosi alla cura, sono contenute nel Libro bianco, promosso da ACTO Italia, presentato al Ministero della Salute con madrina Nancy Brilli, a pochi giorni dalla Giornata Mondiale dei Tumori Ginecologici che cade il 20 settembre.
L’attrice ha raccontato la storia della sua malattia oncologica, il dolore della scoperta e il lungo difficile iter della terapia. «Ho sempre sofferto di endometriosi, poi all’età di trent’anni mi è stato diagnosticato il tumore ovarico. I medici mi dissero immediatamente che non avrei mai potuto mettere al mondo un figlio. Fortunatamente la scienza va avanti e le prospettive di cura cambiano: oggi sono madre di un ragazzo di 23 anni».
Nel Libro bianco sono riportati i risultati di una ricerca realizzata da ACTO Italia su oltre 100 pazienti e con il contributo di oltre 20 professionisti tra clici e esperti. È emerso che è aumentata la conoscenza della malattia ma meno di 3 pazienti su 10 scelgono di curarsi in un centro specializzato per questa neoplasia, ignorando quanto tale decisione possa fare la differenza nel percorso di cura.
«Il tumore ovarico è una patologia silenziosa ed è tra i più gravi per la sua mortalità attribuibile a molti fattori tra cui una sintomatologia specifica e tardiva e l’assenza di strategie di screening validate che consentano di effettuare una diagnosi precoce» scrive il ministro della Salute Orazio Schillaci nella prefazione del Libro bianco. Il 70% delle pazienti scopre il tumore ovarico in fase avanzata, nonostante le visite ginecologiche annuali.
I sintomi non specifici sono presenti nel 54% dei casi. Per oltre 4 donne su dieci la diagnosi è stata del tutto casuale: a seguito di controlli di routine (26%) o di controlli per altre patologie (16%). Sono tre i sintomi più frequenti: gonfiore addominale (58%), disturbi nel basso ventre (39%) e perdita di peso (34%). Il 94% delle donne non ha sospettato che potessero essere riconducibili a un tumore ginecologico.
Il tumore ovarico è raro rispetto ad altre neoplasie, rappresenta circa il 3% di tutte le diagnosi di tumori femminili. In Italia sono in media 5.300 le nuove diagnosi effettuate ogni anno e nell’80% dei casi la malattia viene individuata quando si è già diffusa a livello locale, al peritoneo e ai linfonodi dell’addome. Se non addirittura nei casi più avanzati, al di fuori della zona pelvica: al fegato, alla pleura e in altri organi distanti.
La ricerca scientifica ha fatto passi da gigante e la percentuale di pazienti potenzialmente guarite è in aumento. Ma si può e si deve fare di più. La ricerca di ACTO Italia mostra che meno della metà delle pazienti, il 45%, accede alla profilazione genomica (HRD), non ancora rimborsata dal Sistema Sanitario Nazionale. Al 12% delle pazienti non viene proposto nemmeno il test genetico per le mutazioni BRCA, nonostante sia stato inserito nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e quindi fruibile in convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale.
È fondamentale che una volta individuate le pazienti BRCA positive o con altre sindromi ereditarie che aumentano il rischio di questo tumore, il test genetico venga proposto a cascata anche ai familiari.
La professoressa Nicoletta Colombo, dell’Università Milano-Bicocca, direttore del Programma Ginecologia dell’Istituto Europeo Oncologia, spiega che negli ultimi cinque anni sono aumentate le donne guarite. «Abbiamo scoperto il primo bersaglio del tumore ovarico che può essere colpito con farmaci mirati. Si chiama Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD) ed è presente nei tumori di tutte le pazienti con mutazioni BRCA e di un altro 25% di pazienti senza mutazioni di questi geni». Perciò è necessario garantire i test genetici, a scopo di prevenzione delle persone sane, e genomici, sul tessuto tumorale.
Giovanni Scambia, direttore UOC Ginecologia Oncologica – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma, ha sottolineato che i test genetici sono il requisito essenziale per garantire a ogni paziente una strategia terapeutica personalizzata. «Individuare la terapia più adatta ad ogni singolo paziente – ha detto – è un aspetto centrale soprattutto quando parliamo del trattamento chirurgico, che oggi rappresenta la terapia d’elezione in tutte le fasi della malattia: nello stadio iniziale, dove l’intervento e la chemioterapia permettono di raggiungere tassi di guarigione anche dell’80-85%, e negli stadi avanzati, dove l’intervento da solo riesce a eradicare la malattia in circa il 60% delle pazienti. Intervento che richiede il contributo di un’équipe specializzata, la cui presenza è garantita solo nei centri specializzati».
Il Libro bianco insiste anche sull’importanza per le donne di essere informate sul dopo terapia, quindi sulla possibilità di gravidanze e sulla vita sessuale. La sessualità sembra essere un tabù per 4 donne su 10. Per oltre la metà delle donne la sessualità è peggiorata, ma solo nel 16% dei casi le pazienti hanno cercato un supporto nello psicologo e nel 12% nel ginecologo. Nessuna donna si è rivolta al sessuologo. Una delle nove protagoniste del Libro bianco, Cristina, racconta che «riprendere i rapporti sessuali dopo le cure non è mai facile. Il corpo reagisce diversamente dopo la chemio, gli interventi e la menopausa indotta. È un fatto fisico ma anche mentale, per cui dovrebbero essere offerti entrambi i tipi di supporto, sia ginecologico che sessuologico, a chi lo desidera».
Poi c’è la ripresa dell’attività lavorativa. Le condizioni lavorative risultano peggiorate per il 65% delle pazienti, e le condizioni economiche per il 53%. Ancora troppe poche donne si prendono cura anche della qualità della propria vita: il 45% delle pazienti va da psicologi, nutrizionisti e professionisti specializzati nelle terapie complementari. Il 30% si rivolge alle Associazioni di pazienti o volontariato. Il 43% vorrebbe maggiori informazioni sulle terapie complementari-integrative, il 31% maggior confronto tra pazienti, il 28% maggior supporto psicologico.
C’è ancora un mondo da esplorare, non solo nelle terapia ma anche nell’affiancamento delle donne durante il percorso di cura e dopo. Anche quando la fase peggiore è passata e si va avanti con le analisi di controllo, permane l’ansia, come ha detto un’altra donna nel Libro bianco. È in questo momento che sarebbe necessario un sostegno, un supporto affinché nessuna si senta sola.
18 settembre 2023
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