Il 12 giugno saremo chiamati a pronunciarci su 5 quesiti referendari per una giustizia “giusta” chiesti dalle nove Regioni governate dal centro destra. Poiché i quesiti proposti sono piuttosto oscuri per l’opinione pubblica è alto il rischio che il voto sia influenzato da pregiudizi e slogan ingannevoli, a cominciare dal mito che attraverso le modifiche proposte dai referendum si operi una riforma della giustizia, rendendola più “giusta”. In realtà da questa trama di quesiti non emerge alcuna riforma del sistema giustizia né alcuna innovazione volta a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini. In primo luogo occorre rilevare che il quesito sul decreto Severino, non ha nulla a che vedere con la “giustizia” ma riguarda la trasparenza e la dignità dell’esercizio delle cariche elettive e di governo, prevedendo l’incandidabilità ed il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per coloro che siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per delitti di una certa gravità. Il quesito non punta ad eliminare quegli aspetti critici della Severino che hanno suscitato dubbi di costituzionalità, come la sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano riportato condanna non definitiva, ma travolge l’intero Testo Unico. Dal punto di vista del nostro ordinamento costituzionale il Decreto Severino dà attuazione all’art. 54, secondo comma che prevede che: “i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di esercitarle con disciplina ed onore”. Non si comprende per quale motivo i cittadini italiani dovrebbero sbloccare a corrotti e corruttori la strada del Parlamento, del Governo e delle istituzioni politiche locali. Cancellata la Severino e venuta meno ogni sanzione amministrativa di incandidabilità, rimane solo l’interdizione che derivi da un provvedimento giudiziario per escludere le persone condannate per gravi delitti dalla possibilità di accedere a cariche pubbliche, ma si tratta di un rimedio più apparente che reale. Ai sensi dell’art. 29 del codice penale l’interdizione perpetua dai pubblici uffici è una conseguenza automatica nel caso venga inflitta una condanna per un tempo non inferiore a cinque anni, senonchè, nella generalità dei casi, tutte le persone condannate per fatti di corruzione e altri gravi reati (peculato, corruzione, concussione, riciclaggio, associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, porto e detenzione di armi da guerra) possono incorrere in pene inferiori ai cinque anni, e quindi conservare la possibilità di ricoprire incarichi parlamentari o di governo, una volta decorsi i termini dell’eventuale interdizione temporanea. Degli altri quattro referendum proposti, due sono irrilevanti, nel senso che la loro eventuale approvazione non avrà alcun effetto pratico, né sull’esercizio della giurisdizione, né sull’ordinamento della magistratura. Si tratta del referendum che riguarda la partecipazione degli avvocati membri dei Consigli giudiziari alla formulazione dei pareri sulle pagelle professionali dei magistrati e quello relativo alla presentazione delle candidature dei magistrati per l’elezione al Consiglio Superiore della magistratura. Gli unici quesiti che hanno vera rilevanza perché in qualche modo incidono sullo statuto della magistratura e sull’esercizio della giurisdizione penale, sono quelli relativi alla separazione delle funzioni e alla limitazione delle misure cautelari. Il quesito sulla separazione assoluta delle funzioni fra magistratura requirente e magistratura giudicante ha l’effetto di rendere impossibile il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, già adesso soggetto a fortissime limitazioni. In realtà sullo sfondo di questo quesito vi è l’obiettivo, tenacemente perseguito da alcuni settori politici, di pervenire alla separazione delle carriere, passaggio non consentito a Costituzione vigente. L’unico effetto della separazione delle carriere sarebbe quello di allontanare il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione e schiacciarlo di più sull’attività di polizia. Si tratta di un antico cavallo di battaglia della destra berlusconiana, dal quale nessun vantaggio trarrebbe la generalità dei cittadini. Dal punto di vista delle garanzie, i cittadini non hanno bisogno di un avvocato della polizia, che un domani potrebbe essere assoggettato al controllo politico, ma di un magistrato imparziale che possa condurre le indagini e guidare l’attività di polizia giudiziaria nell’interesse esclusivo della verità. Ma il quesito più sconcertante è quello che i promotori qualificano come “limiti agli abusi della custodia cautelare” che, invece, la Corte di Cassazione ha denominato “limitazione delle misure cautelari. Infatti il quesito non interviene sui possibili abusi della custodia cautelare, ma travolge tutte le misure cautelari, sia quelle detentive (come la custodia in carcere o gli arresti domiciliari), sia quelle non detentive, come l’allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare o il divieto per lo stalker di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’abolizione delle misure cautelari, nel caso sussista un pericolo concreto ed attuale di reiterazione dei reati, avrebbe l’effetto di smantellare qualsiasi forma di contrasto alle attività criminali in itinere, esponendo le persone offese a rischi non altrimenti evitabili. Si pensi agli atti persecutori che possono durare all’infinito, se non viene posta nessuna limitazione alla libertà dello stalker di perseguitare la sua vittima. Si pensi a reati particolarmente odiosi come i furti in abitazione, il traffico di droga o la pornografia minorile. In conclusione con i referendum non si opera alcuna riforma della giustizia, bensì una riforma contro l’amministrazione della giustizia, contro l’eguaglianza e i diritti delle persone. Tutto ciò allo scopo di maggiormente tutelare il ceto politico e i colletti bianchi dagli effetti negativi del controllo di legalità.
di Domenico Gallo
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