Un pasto caldo, un letto e tanta fraternità: i 20 anni della casa di accoglienza della Caritas – IL CIRIACO

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La struttura di via Morelli e Silvati compie 20 anni. Due decenni di solidarietà, accoglienza, sostegno ai poveri di Avellino. Inizialmente intitolata a don Tonino bello, la struttura gestita dalla Caritas diocesana è stata dedicata a monsignor Antonio Forte e ribattezzata casa della fraternità. E’ un bilancio ampio quello che traccia Carlo Mele, direttore della Caritas, non dimenticando le decine e decine di volontari che hanno permesso in tutti questi anni di non chiudere la struttura neanche per un giorno.

«Monsignor Antonio Forte volle fortemente questa struttura nell’anno del Giubileo. Una mensa e un dormitorio che da venti anni non hanno mai chiuso un solo giorno, assicurando sempre un intervento per tutte le persone che hanno bussato alla porta trovando sempre un sostegno sia in termini alimentari che di protezione notturna. Monsignor Forte è stato il Vescovo che ha avuto l’intuizione della necessità di un luogo del genere ad Avellino, la testimonianza di una Chiesa che  è quotidianamente attenta agli ultimi e agli invisibili. E’ fondamentale che la gente ricordi, perché Avellino senza il segno di Monsignor Forte, sarebbe stata una città meno vicina ai poveri» spiega Mele.

Venti anni di anni di attività che hanno rappresentato un esempio di volontariato senza precedenti. «La mensa non ha mai rappresentato un servizio di solo uso e consumo, ogni persona è stata accompagnata e aiutata a superare il momento di crisi. Tenere in casa persone a lungo termine non è mai stata la nostra politica. Abbiamo sempre preferito soluzioni più esaustive, da raggiungere con progettualità. Sempre partendo dalla persona, perché chi chiede una mano alla nostra struttura chiede innanzitutto che chi di dovere si interessi alla sua situazione. Da noi sono passate decine e decine di volontari, moltissimi erano giovani e poi hanno trovato una loro strada professionale. Ma coloro che sono rimasti in città, non hanno mai dimenticato l’esperienza alla mensa dei poveri, in tanti hanno continuato a dare il proprio contributo. Il volontariato ha reso possibile che la struttura restasse aperta h24, questo è ammirevole, questo è il segno che offre una risposta ai poveri e la dimostrazione che dedicarsi all’altro è possibile».

Un luogo che spesso ha supplito alle mancanze delle istituzioni, così come tutta l’attività di volontariato della Caritas ha rappresentato la migliore delle politiche sociali del territorio: «a prescindere dal Piano di Zona di Avellino, rispetto al quale ormai registriamo dieci anni di latitanza inspiegabile, cerchiamo sempre di lavorare in concertazione con gli organi istituzionali. Mancano le progettualità e spesso i fondi destinati alle politiche sociali non sono stati usati in maniera appropriata. Noi però cerchiamo sempre di non far mancare quell’azione di advocacy per cui un cittadino in difficoltà si aspetta che le istituzioni locali si accorgano della sua difficoltà ed intervengano per supportarlo nel superamento del momento di difficoltà».

La Casa della Fraternità non ha mai chiuso battenti, neanche durante il primo lockdown né in questi mesi di nuove restrizioni dovute al Covid. «Abbiamo dovuto rimodulare le nostre azioni, siamo passati insomma da una relazione viso a viso, braccio a braccio, ad una fatta più di contatti telefonici, di sguardi che sicuramente non mancano. E’ una struttura che nonostante tutto cerca comunque di dare conforto e fraternità, perché questa è l’essenza che vogliamo trasmettere. Chiaramente in questo momento di crisi sanitaria la fraternità dobbiamo mostrarla in modo diverso. C’è stato un aumento delle richieste, dovuto alla crisi economica che è conseguita dalla pandemia, ma le abbiamo evase tutte incentivando reti di contatto anche con le parrocchie, per arrivare soprattutto da chi è solo che rischia di restare invisibile. Nei prossimi giorni – conclude Mele- partirà il progetto di una squadra di persone disponibili che, munite di tutte le protezioni anti Covid, si recheranno direttamente a casa delle persone non appena ricevuta la richiesta di aiuto.  Un modo per ricreare un minimo di relazione umana diretta con chi vive il dramma sanitario in solitudine».



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