Un referendum tutto politico | Corriere dell’Irpinia

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La “furbata” fatta dal governo, su pressione del M5S, di accorpare elezioni e referendum sulla riduzione dei parlamentari è un caso unico nel panorama politico italiano. Chissà se riuscirà a portare più elettori alle urne, almeno nelle regioni interessate al voto. E quindi a consacrare il trionfo di una delle misure- bandiera della costellazione pentastellata. Certo è che ha alterato il confronto su un tema istituzionale importante, visto che la nostra è una repubblica parlamentare. E ne ha fatto, invece, una vicenda prettamente politica. Legata a scenari politici immediati. Come la sopravvivenza del governo. La tenuta della maggioranza, magari con nuovi rapporti di forza tra i suoi partner. La resurrezione delle (diverse) opposizioni. Per ora, l’abbinamento ha cominciato ad evidenziare tutte le sue contraddizioni. Una riforma con assurde connotazioni punitive verso il Parlamento. Slegata da qualunque disegno di riordino dei poteri delle Camere. Nessun dibattito sui rischi di una riduzione avventata. Con il numero dei parlamentari fissato a casaccio. E collegi enormi, che impediranno che le regioni e le province più piccole siano adeguatamente rappresentate. Una alterazione democratica che peserebbe sui nostri assetti costituzionali. La affrettata e sostanzialmente unanime votazione del Parlamento a favore della riduzione ha segnato la resa della vera politica alle spinte più populiste della nostra storia politica (il Parlamento “aperto come una scatola di tonno”). Ora il colpevole doppiogiochismo di buona parte dei partiti sta dando vita ad uno strano balletto. E’ come se quasi tutti i partiti avessero paura di andare fino in fondo, sommersi da crescenti perplessità e dalle resistenze interne delle future vittime sacrificali. L’operazione di “dimagrimento” delle Camere non sarà infatti indolore, soprattutto per i tanti peones, morituri per l’onore di bandiera M5S. Secondo alcuni calcoli, con una legge proporzionale e con l’inevitabie soglia bassa, il Pd perderebbe tra il 15 e il 20% degli eletti. FI quasi la metà. Il M5S dal 50% al 60%. Perfino la Lega, in crescita rispetto al 2018, non riuscirebbe a far rieleggere tutti i suoi parlamentari, cosa invece possibile per FdI, in crescita. Insomma, una carneficina! Il Pd aveva votato ben tre volte contro la demagogica riforma-slogan di Di Maio. Ha poi cambiato supinamente atteggiamento, pur di costituire il governo con il M5S, dietro promessa di una legge elettorale che potrà essere cambiata in un attimo dai futuri governi. E ora appare squassato dall’appello di 283 costituzionalisti e dal secco “no” di Prodi, fondatore del Partito. Ed ecco farsi strada il tentativo di salvare capra (la faccia) e cavoli (evitare scontri interni, soprattutto con Bonaccini, leader in pectore e molto amico di Renzi): uno stentato sì, ma con libertà di coscienza. Le diverse maggioranze della seconda Repubblica hanno varato leggi elettorali cucite sulle loro convenienze immediate. Accomunate però dalla mancanza delle preferenze, con la scusa che le alleanze tra candidati li rafforzavano a spese degli altri. Con il consenso del popolo – che così si è castrato da solo – è stato demonizzato l’ unico valido strumento a disposizione degli elettori per scegliere i propri rappresentanti. Un tempo gli esponenti politici erano per la maggior parte molto più validi. Erano il frutto di dure selezioni. L’attuale stato di cose è il risultato della voracità degli apparati di partito, che hanno voluto impossessarsi di ogni selezione o scelta. Candidano i più graditi ai leader e li includono nei primi posti delle liste elettorali. E lasciano ai cittadini solo il compito di scegliere il simbolo preferito. Con il risultato che in Parlamento, da anni – a parte poche eccezioni – siedono i più docili ai voleri delle segreterie. E non i più capaci. Che senso ha, allora, diminuire il numero dei “nominati” senza cambiare il meccanismo di selezione? Il popolo vincerà non quando ci sarà qualche decina di parlamentari in meno. Bensì quando sarà restituito lo “scettro al principe”. Cioè quando agli elettori sarà finalmente riconosciuto nei fatti il diritto di scegliere, tra i candidati del partito, chi mandare come loro vero rappresentante in Parlamento!

di Erio Matteo



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