La “carovana della solidarietà” per portare aiuti essenziali al martoriato popolo ucraino, rappresenta solo uno dei modi – forse il più significativo – per testimoniare concretamente la solidarietà verso chi, a causa di una guerra assurda, ha perduto tutto, la casa, il lavoro, gli affetti familiari, il calore della propria terra. Le immagini trasmesse attraverso i canali televisivi, nella loro sconvolgente drammaticità, portano il nostro pensiero a periodi bui del passato che abbiamo solo percepito dai libri scritti dai protagonisti vittime delle violenze di un momento storico che non abbiamo direttamente vissuto. La recente anticipazione di Papa Francesco circa un suo viaggio apostolico in Ucraina, ci riporta alla concreta testimonianza di una “Chiesa in uscita” che non separa la liturgia dal servizio, andando nelle periferie più drammaticamente bisognose per diventare “ospedale da campo” aperto a tutti i feriti della vita e, in particolare, a quelli colpiti dalla scandalosa ferocia di una guerra voluta solo dal delirio di onnipotenza di un potente. Questi sforzi di solidarietà, dalle impressionanti dimensioni, coralmente sostenuti da credenti e non, si compiono in un momento particolarmente “forte” della Chiesa italiana, non solo perché siamo in cammino nel periodo liturgico della quaresima, ma mi riferisco allo sforzo in atto già dall’anno scorso, per il passaggio epocale di una Chiesa clericale a una Chiesa sinodale. È uno sforzo, questo, ancorato nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, che rimette al centro la comune vocazione battesimale di ogni battezzato, e presenta la Chiesa come un cammino di comunione. Questa visione, attraverso il movimento teologico “del ritorno alle fonti” considera la Chiesa come un popolo in cammino sulle vie del mondo e come realtà dinamica che, proprio in quanto tale, deve sempre riformarsi. Tale visione situa il prete in mezzo al popolo di Dio, in una costante e intrinseca relazione con la comunità, per l’annuncio condiviso della Parola per costruire il bene comune. Si tratta, in sostanza, di costruire una Chiesa sinodale, al contrario di una Chiesa clericale, per testimoniare quotidianamente, concretamente e coerentemente la comune vocazione missionaria dei laici e dei presbiteri. È uno sforzo notevole nelle condizioni concrete delle nostre società secolarizzate e pluraliste. In tal modo il popolo diventa il vero soggetto della storia, attraverso l’elaborazione di una cultura che gli è propria. Papa Francesco, già nel 2013, nell’intervista ad Antonio Spadaro, apparso su “La civiltà Cattolica” affermava che “l’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele a Dio”. Quindi la Chiesa è popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Questa visione dinamica e inclusiva della Chiesa ci fa dunque uscire da un modello permanente gerarchico. La sinodalità è un processo, un cammino aperto e responsabile, che si dispiega nel tempo e nella storia, piccola o grande, delle nostre comunità. Una Chiesa sinodale è una Chiesa relazionale dove tutto il popolo di Dio cammina insieme, dove tutti, battezzati, discepoli, missionari, qualsivoglia sia la loro vocazione e la loro posizione si ritrovano nell’interdipendenza e nella mutualità. Appare, quindi, evidente il dovere di non guardare altrove quando un’intera comunità nazionale è afflitta da violenze e abusi di ogni tipo come sta avvenendo, da oltre un mese, in Ucraina. Altro è il discorso dei macro-interessi politici ed economici delle grandi potenze: i cristiani attivi e responsabili hanno il dovere di promuovere la pace, la giustizia e la solidarietà con il coraggio e l’impegno che ci deriva dall’essere non solo aderenti, ma testimoni del messaggio evangelico.
di Gerardo Salvatore
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